Finito anche il 7.
7. Missione
Lo sgomento era ai massimi livelli: nessuno riusciva a credere che quella enorme fortuna fosse capitata. Ricordavano quanta fatica avevano fatto nelle previe venute a WoO e constatavano perciò con maggiore incredulità quanta invece non ne avessero fatta adesso. La fortuna è sempre qualcosa a cui affidare e affibbiare la responsabilità degli eventi: cause ed effetti è confortante farli dipendere da un’entità esterna a noi. Almeno sapremo sempre chi incolpare, se vanno male le cose, o sapremo sempre chi ringraziare, se mai ci andassero bene. Jonas, per esempio, aveva sempre ritenuto conveniente essere nato in una famiglia come la sua, dove il destino è sì già stabilito, ma almeno è assicurato. Non avrebbe mai corso il rischio di unirsi a quell’orda di disoccupati che circolavano a piede libero per le strade, con gli striscioni al grido: “Vogliamo un lavoro. Abbiamo diritto ad un lavoro”. Gli sarebbe bastato studiare qualche anno all’università di medicina e lo studio del padre, i suoi pazienti, i suoi strumenti, sarebbero stati di sua proprietà. Era stato fortunato anche per un’altra circostanza: la sua nascita lo aveva condannato secondogenito, ma il caso volle che il fratello sentisse l’ispirazione per il giornalismo e non seguisse le orme del padre, lasciando così a lui l’onere e l’onore di ereditare l’attività del vecchio. Che figata la sua vita! Mai una volta che qualcosa fosse andata storta. Aveva pure una bella marionetta di fianco da esibire ai congressi, cosa si può desiderare di più?Essere arriso dagli eventi e dalle circostanze, essere così benvoluto dal fato, gli aveva permesso di concedersi il lusso di agire in ogni occasione così come gli giravano, calpestando anche il prossimo se fosse stato richiesto: tanto sarebbe stato graziato comunque. Ecco perché in quel frangente pensò che forse era il suo influsso benefico a far godere tutti di quei buoni auspici.
«Da non crederci, direi» buttò lì, godendo un po’ di guardare quelle facce da morti di fame che avevano i suoi compagni. “La sfortuna ti segna proprio in viso”, pensò poi.
«Da non crederci sì», confermò Yuzu.
«Be’, sfruttiamo l’occasione propizia allora! Matt perché non ci fai il santo piacere di renderti utile per una buona volta e conduci qui i tuoi preziosi amichetti?» proseguì Jonas, concludendo con «Sempre che lo siano davvero.» Ridacchiò. Matt abbassò il viso chiudendo gli occhi, inspirò, espirò, rialzò la faccia e disse: «Credo tocchi a me. Ma intendiamoci: non lo faccio né per voi, né per WoO.» E rivoltosi a Jonas, aggiunse: «Lo faccio per i miei “amichetti”!»
«L’importante è che lo fai, qualsiasi possa essere la tua motivazione» incitò Julay, rubando il turno di replica all’avversario. Stavano puntualmente sul piede di guerra.
«Ok. Andrò da solo. Allora a tra poco.» Con queste parole Matt se li lasciò alle spalle e si diresse verso il varco che aveva utilizzato per venire.
Non appena non fu più a colpo d’orecchio, Rose domandò a Takeshi:
«Secondo te hai fatto bene a dirgli quelle cose?Per me sei stato un po’ troppo egoista.»
«Ho detto solo ciò che pensavo. Sono stanco di sentire la gente dire: “Senza di lui, non farebbe nulla!” Io ho una mia testa, lui ha la sua. Non ho bisogno di essere protetto, capito, aiutato. Non voglio questo da nessuno, men che meno da lui.»
«A me non può far altro che piacere ascoltare queste dichiarazioni da uomo fatto e finito, ma sappi Takeshi che non è giusto voltare le spalle a tuo fratello così di punto in bianco.»
«E’ stato un grande.» Daichi si intromise con forza nel discorso. «E’ stato un grande», ripeté.
«Sì dai, sappiamo benissimo che le teste gloriose come te ovviamente pensano che un atteggiamento da “Io mi sono fatto da me!” sia il top dell’essere fighi. Il mio era solo un consiglio. Alla fine quello che sopporterà il distacco non sarai certo tu Daichi, né io, ma Takeshi. Spero solo tu non te ne penta.»
«Tenevo così tanto a queste vostre parole…» commentò il ragazzo in risposta. «Cioè…come dire…Ho desiderato tanto potervi parlare di nuovo così.»
«Ecco. Matt aveva ragione.» Rose appoggiò sulla fronte la sua mano, in un gesto di disperazione.
«No, ti sbagli! Non è come dice lui. Si mette sempre in mezzo, è un egocentrico!Se gli ho chiesto di venire è perché lo volevo davv…»
«Non giustificarti Koda» suggerì Jonas sogghignando. «E’ solo colpa sua. Aspettiamo adesso come sì ragguaglierà.»
«Che ne direste di “spiare” le sue mosse?» chiese entusiasta Vit.
«Io dico di sìììììììì! Io voglio guardare!» esultò Copy.
«EEEEEH?! Si può?!» urlarono all’unisono.
«E’ una ruota del tempo o erro?E’ logico che mostri il presente. Per questa ragione, bando ai convenevoli» e spalancando le braccia e aprendo i palmi delle mani, Vit pronunciò la sua richiesta: «Mostraci cosa sta accadendo sulla Terra a Matt.»
* * * * *
Corse. Corse. Corse fin quando la quercia alle sue spalle scomparve completamente. Finché percorse tanto asfalto da ridurre al minimo la distanza dal suo obiettivo. Fin quando il cancello della clinica non gli si parò dinanzi, sbarrandogli la strada. Lo scavalcò, perché era troppo stancante bussare al citofono e aspettare che qualcuno aprisse. Corse per il vialetto; varcò la soglia decorata con fiori di carta velina e disegni vari, che i bambini avevano fatto a scuola. Non appena piombò nell’ingresso, annunciandosi, una schiera di mocciosetti in pigiama, dall’età compresa tra i 3 e i 7 anni, gli si fecero incontro. Gli saltarono addosso, facendolo letteralmente finire a gambe all’aria.
«Che sta succedendo qui?Hey hey, chi avete atterrato?!Mi scusi! Mi scusi davvero! Sono molto…MATT?!» La meraviglia di Steve di trovarsi di fronte a quello scapestrato del suo paziente era immensa.
«Dottore…» salutò Matt, che nel frattempo cercava di districarsi da quel groviglio di braccia che gli si erano fatte al collo.
«TUUUU!» lo sgridò incavolato nero. «Sei un grosso irresponsabile, lo sai?!Ma come ti è balenato in testa di saltare il ciclo di terap…»
«La prego, Dottore, la prego. Rimandiamo la ramanzina ad un’altra volta. Mi aiuti piuttosto a togliermeli di dosso», e così dicendo spostò Aki dalle sue parti basse, ormai schiacciate completamente. Ma poi si pentì di essere stato un po’ troppo duro e dolcemente gli accarezzò i capelli. Poi fece un sorriso ad ognuno e appoggiò la sua fronte contro quella di Miya, che gli si era accucciata addosso.
«Vi sono mancato, eh?». Mentre pronunciava questa domanda, chiuse gli occhi, li riaprì e li piantò con morbida forza in quelli della bambina.
«Tantooooo…» esplose la piccola in un pianto a dirotto e abbracciando il petto esile della persona più importante che aveva al mondo. Nel vedere quella scena, l’incazzatura del Dottore sfumò nell’immediato. Sollevando prima Miya dalle braccia di Matt, poi Mattias, cercò di liberarlo dalla morsa nella quale l’avevano stretto. Aspettò poi che si alzasse, che Miya la smettesse di piangere e lasciasse i pantaloni del ragazzo, che ormai stringeva nella manina, e, speranzoso di riscontrare un rimorso nell’assenza per quella mattina, gli chiese: «Come mai sei qui?Credo proprio non sia per la terapia…»
«Dov’è Sakura?Ho bisogno di lei.»
Che bello non essere calcolato neanche di striscio. «Non lo so…credo di là», rispose cercando di fare l’indifferente, sebbene ormai la rabbia lo stava incalzando nuovamente.
«Cos’è questo baccano?» Una voce suadente annunciò Sakura, prima che entrasse nell’atrio.
«Ah eccoti!» e prendendole la mano, iniziò a trascinarla verso la sua stanza, nella direzione dalla quale stava giusto provenendo. Nel mentre prese a racimolare qualche abito pulito per ognuno dei piccoli, di quelli che trovava gettati a casaccio sulle panche nei corridoi. Matt aveva insegnato loro uno strano gioco: spargere abiti per l’ospedale ogniqualvolta si fossero sentiti soli. E ce n’erano molti. Infatti l’obiettivo era appunto far notare a chi sta intorno, attraverso un disordine di colori e tessuti, che un problema c’è ed è reale.
«Dove andremo di grazia?» Sakura accelerò il passo per tenergli dietro.
«Questo te lo spiegherò per strada! Mi servite tu e i bambini!Ora però non dobbiamo perdere altro tempo, ok?»
Sakura impuntò i piedi e strattonò Matt, in modo che il contraccolpo lo fermasse. Si girò a guardarla. Lei lo squadrò. In quell’incrocio di occhi qualsiasi parola avrebbe stonato. Come convincerla? Cosa avrà d’andare così di fretta? Mi seguirà? Che gli è successo? Domande di questo genere rimbalzavano da una pupilla agitata all’altra che si parava di fronte. Poi Matt ruppe il silenzio: «Fidati di me.»
Sakura sostenne ancora quel blu intenso che la fissava e poi, decisa a cedere a quell’insistenza, si rivolse al Dottore, che era corso loro dietro nel disperato tentativo di capirci qualcosa.
«Dottore» lo chiamò. «Avverte lei Clara per Bryan e Mattias?»
«Eh cosa?» Lo shock aumentava. «Non farete sul serio?!Ma che vi prende?!»
«Lasciali andare Steve.» Janet uscì da una delle camerette, dopo aver finito di rassettare il lettino, attratta come non mai da quel mormorare continuo che si avvertiva al di là della porta.
«Janet!» urlò Steve esasperato. «Ti ci metti anche tu adesso?!»
«Ma di cosa ti preoccupi, Steve. C’è Matt con i bambini, no?Non potrà mai accadere nulla di male.» Rivolgendosi poi alla causa di tutto quel trambusto e togliendogli tutti quei panni di mano, aggiunse: «Aspetta solo che ti preparo la cassetta con le medicine di Miya e Soh. Sakura, mi raccomando tu: non stancarti troppo, ok?Nelle tue condizioni è pericoloso.»
«Va bene, Janet.»
«Ma…ma…Aspettate!!!Janet!» La pazienza di Steve era finita. «Cos’è questa follia dirompente?!Tu!», indicò Matt «Piombi qui improvvisamente e te ne esci con questa cosa di svuotarmi la clinica portando i miei pazienti chissà dove! Non ti darò mai il permesso! No! No! No! Sei fuori se pensi che te lo permetterei! E se succedesse qualcosa?! E se uno di loro avesse un attacco?! Tipo Miya» e la prese per le spalle. «Prendi Miya. Se si sente male, che fai?! Eh che fai?! No! Noo! Proprio no! Questa è follia!!!» Iniziò a camminare avanti e indietro, in preda a un demonio.
«Steve?»
«Janet non mi convincerai! Ma poiiiiiiii! Tu!» e indicò nuovamente Matt, che ormai tratteneva le risate a fatica. Era troppo ridicola e teatrale quella scena a cui stavano assistendo. «Non ti sei presentato alla terapia, te ne esci con richieste patologiche, sei da rinchiudere in un manicomio per quanto non ti funziona il cervello, Matt! Tu…s…sei un decerebrato!»
«Steve?» Janet fu di nuovo ignorata.
«No! No! No! E’ inaccettabile questo tuo comportamento! E tu Sakura, che gli stai pure dietro!!! Siete proprio fatti l’uno per l’altra! Non vi permetterò di coinvolgere anche i bambini in questa pazzia. No! No! No!»
«AAAAAAH! BASTA STEVE, NON ROMPERE!» gridò l’infermiera fuori dai gangheri, spaventando non poco tutti e riuscendo a far ingoiare a Matt la sua risata. Calmandosi continuò poi: «Lasciali respirare un po’ questi ragazzi!E non ti preoccupare più del necessario. Matt. Avvertici per qualsiasi problema. Sakura. Non ti stancare e…vatti a vestire! Bambini voi fate i bravi, ok?E non date troppo da pensare a Matt.» Quest’ultimo già stava seguendo Sakura, quando si sentì chiamare da dietro.
«Matt!»
Si voltò.
«E’ meglio che prima di andare il dottore ti visiti. Ti vedo un po’…spossato.»
«Sto benissimo», e corse via, diretto alla stanza di Sakura, lasciandosi alle spalle un Dottore sconcertato e una Janet impensierita. Entrò nella cameretta, spalancando ai suoi occhi un panorama a dir poco allettante. Due morbidi seni, tondi, perfetti in ogni loro linea, gli si pararono dinanzi.
«Maiale.»
«Chiudevi la porta se non volevi che entrassi.»
«Vuoi toccarle?»
«No.»
«Ok», concluse lei indifferente.
«Casomai più tardi» aggiunse lui, pentito di aver rifiutato. Si andò poi ad appoggiare al balconcino.
«Cos’è che ti fa pensare tanto?» chiese lei innocentemente.
«Niente.»
«Ok.»
Silenzio.
Sakura aveva finito per scegliere quel vestito bianco ricamato che piaceva tanto a Matt. Era il suo preferito, anche perché gliel’aveva cucito proprio lui. Gli donava poi particolarmente, dal momento che era scura di carnagione.
«Sono pronta.»
Silenzio.
«Andiamo?»
Ancora silenzio.
Gli si avvicinò e gli urlò nell’orecchio: «ANDIAMOOOO?»
«AAAAAAAH! Sì sì sì! Sì! Andiamo, andiamo…»
Tornarono verso la hall. Lì vi trovarono tutti ad aspettarli. Steve, con le braccia incrociate, fissava attentamente il pavimento, come per incenerirlo. Janet nel mentre aveva preparato il necessario ai piccoli e ad ognuno di loro aveva raccomandato di prendere una sola cosa importante. Miya aveva scelto il suo coniglietto di peluche, quello che gli aveva regalato Matt a Natale dell’anno scorso; Soh, invece, lo spruzzo contro l’asma. Hime aveva optato per la campana di New York, quelle che se capovolgi lasciano cadere tutto il polistirolo, come soffice neve; gliel’aveva portata il Dottore da un congresso sulle malattie respiratorie nella Grande Mela. Aki aveva preso il suo pallone da calcio e Yuri la sua copertina con l’orsetto; Bryan Mattias e Mattias la mano del fratello.
«Siete pronti adesso» affermò sollevata Janet, constatando sui loro volti una curiosità e una contentezza mal celate. Erano eccitati.
Matt strinse la manina di Yuri con la destra e quella di Soh con la sinistra, e incitando gli altri con gli occhi a seguirlo, si avviò verso l’uscita.
«Matt! Abbi cura di te», gli gridò alle spalle Janet. Il Dottore tacque e salutò soltanto con la mano Miya che agitava quella libera, che non stringeva Sakura.
Non appena scomparvero al di là del cancello, Steve osò parlare: «Non sei preoccupata?»
«Non propriamente. Mi fido di Matt.»
«Speriamo di aver riposto bene questa fiducia.»
Janet prese ad aggiustargli il colletto del camice. Sorrise.
«Sai benissimo che Matt darebbe la vita per loro, perciò stai tranquillo.»
«Più che altro mi preoccupa lui.»
«Fidiamoci. E’ l’unica cosa che possiamo fare» e tirando i bordi del colletto verso il basso, lo baciò.
* * * * *
Il fiume brillava al tramonto. Appoggiato alla balaustra del ponte, Gen contemplava l’ultimo sms ricevuto. Dopo anni e anni che non lo vedeva né sentiva, Matt gli aveva scritto.
“Prendi il primo volo. Ci vediamo all’aeroporto.”
Ovviamente tutti i giorni arrivano sui telefonini di ognuno messaggi di questo stampo. Sai com’è, è facile che ti invitino ad andare dall’altra parte del paese senza esporti alcuna motivazione concreta, consigliandoti di prendere l’aereo nell’immediato. Ovvio direi. Gen fissava lo schermo del cellulare, che non era più nemmeno illuminato, poiché, capitandogli in continuazione di ritrovarselo scarico, aveva impostato che dopo 30 secondi si oscurasse. Usava il telefono frequentemente, perché messaggiava di continuo con Mizo e Chiyuki.
Pi pi pi.
Un nuovo messaggio.
Stavolta era Mizo.
“Matt è ammattito.”
Bastò questo per lasciar comprendere a Gen che anche Mizo, e di conseguenza anche Chiyuki, che ne era la ragazza, avevano ricevuto lo stesso messaggio. Digitò in fretta il suo:
“Mi trovi pienamente d’accordo.”
Troppo tempo era passato. Eppure la capacità di Matt di saperti sorprendere e meravigliare non era mutata. Era stato la prima persona a rivolgergli la parola il primo giorno d’asilo, quando già tutti avevano cominciato a prenderlo in giro per il grasso accumulato, risultato di una madre troppo premurosa e gestrice di una trattoria. Non aveva avuto pregiudizi. Gli aveva teso la mano. Non lo aveva chiamato ciccione o quant’altro si avvicinasse ad un’offesa per una persona in carne. Lo aveva anche ringraziato per avergli mantenuto la borsa, mentre si allacciava le scarpe. Quelle scarpe un po’ rovinate. Le stesse scarpe con cui avrebbe giocato tante partite e con cui avrebbe segnato tanti goal. Quanti ricordi riaffioravano alla mente. Anche ricordi di quel triste giorno in cui, spaventato dalle sue molteplici assenze a scuola, Gen aveva domandato alla maestra il perché non venisse ad occupare il suo banco come sempre. La risposta fu: «E’ in ospedale.»
Pi pi pi.
Mizo.
“Che facciamo?”
Forse la pazzia è una cosa contagiosa. Forse quando si ha per un periodo troppo lungo a che fare con soggetti particolari, si finisce per iniziare ad assomigliargli. “Com’era quel detto?Chi pratica lo zoppo, impara a zoppicare” pensò.
«A…n…d…i…a…m…o…», scandì premendo i vari tasti. “Sanità mentale zero” pensò poi, premendo quello d’invio. «In che guaio ci stiamo per cacciare…» Sospirò. Il desiderio di ritrovarsi di nuovo in quattro, quel bel gruppetto che si era formato alle elementari, prevalse. L’elemento aggiunto alla combriccola, quella dolce ragazza che tormentava tanto il suo biondo amico, anche lei desiderava vedere. Chissà cosa avrebbe trovato ad aspettarlo all’aeroporto.
Pi pi pi.
“Prendiamo il treno tra mezz’ora. Riesci ad arrivare in due ore all’aeroporto?Noi ci fermeremo nella stazione di fianco.”
“Sarò lì” inviò. “In un modo o nell’altro ce la farò ad arrivare” concluse poi nella sua mente.
* * * * *
«Matt vai più piano, non riusciamo a starti dietro.»
«Non possiamo perdere tempo!»
«Ma dove stiamo andando?! Avevi detto che mi avresti spiegato.»
«Ti diranno tutto gli altri, io ho ancora da fare qualcosa.»
«Gli altri chi?»
«Quelli a cui da oggi in poi dovrai dar conto.»
Sakura non capiva. Le era sempre stato difficile stare al suo passo, ma mai come in quel momento pensò che fosse impossibile.
Erano arrivati alla quercia. Riunendosi i bambini intorno, Matt si abbassò sulle ginocchia per porsi alla loro altezza. Dolcemente sorrise e disse: «Da qui si va a WoO. Non abbiate paura e fidatevi delle persone che incontrerete al di là di questo tronco. All’inizio potranno sembrarvi scortesi, ma in fin dei conti sono buone.» Alzò il volto verso Sakura. «Tranquilla. In meno di un attimo sarò di nuovo con voi.» Si alzò. Poggiò le mani sulle sue spalle. La baciò. I bambini si coprirono gli occhi con le manine, lasciando però un piccolo spiraglio fra le dita, per spiare quel sogno che tanto desideravano veder realizzato: Matt e Sakura sposati, loro mamma e papà. Che bellezza sarebbe stato esser loro figli realmente. Che enorme calore trasmetteva quel bacio! Si sentivano bruciare tutto dentro e un impulso ad abbracciarli, a stringere il suo candido vestito e la maglietta di lui, faceva capolino nei loro cuori. Cuori così piccoli, che a volte facevano fatica a contenere e comprimere tutto l’amore che la figura di Matt emanava. Quest’ultimo staccò le labbra da quelle di lei e poi corse via, salutando con la mano mentre si allontanava. Sakura pensò che forse continuare ad illudersi era sbagliato, eppure non poteva fare a meno di pensare di essere riuscita finalmente ad installarsi nel suo cuore.
«Andiamo?» sollecitò, tendendo le sue mani verso il gruppetto di curiosi.
Nel frattempo Matt continuava a correre più veloce che poteva. Doveva raggiungere il porto in fretta e poi l’aeroporto. Durante la corsa gli tornò in mente uno dei ritratti che aveva visionato sullo schermo; ora che ci pensava con più calma, si rese conto che non incontrava quella persona da 11 anni. Da quella mattina in cui l’aveva vista uscire da quella stanza d’ospedale. Come se il tempo in quell’istante si fosse fermato: lei ad oggi aveva ancora 3 anni, come quel giorno. Forse aveva sbagliato nel dire che la conosceva; in fin dei conti non aveva mai raccontato nulla a nessuno di lei. Aveva preferito mantenere il segreto, anche perché non si aspettava di poterla incontrare, anzi di doverla in qualche modo andare a prendere lì, in Cina, dove era stata mandata in affidamento. Pure all’epoca aveva pensato che fosse tutta un’assurdità questo suo trasferimento in un posto di cui nulla sapeva, nemmeno la lingua, e con persone che quello stesso giorno aveva incontrato per la prima volta. Anche allora aveva titubato, ma nonostante ciò si erano scambiati una promessa: una promessa di rivedersi.
La strada ai lati scorreva. Sentiva il suo cuore pulsare ad una velocità incredibile. “Se non mi viene un infarto adesso, probabilmente non mi verrà più” constatò con angoscia, pensando a quante volte aveva rifiutato una partita di pallone con la band o aveva saltato le ore di educazione fisica. A quante volte era stato a casa a riposare per una febbre troppo alta, dovuta al troppo stress. A quante volte, dopo un concerto, dovevano chiamare in fretta l’ambulanza per portarlo in ospedale. Come gli erano familiari quelle mura bianche. Quell’odore di disinfettante. Quel rumore continuo della macchina dell’elettrocardiogramma attaccata al suo petto. Lo girare delle ruote delle barelle che venivano spostate con velocità da mani esperte. Il poggiarsi con pesantezza dei piedi delle stampelle di un disabile per terra. Il respiro affannato del compagno di stanza. Per sua scelta questo calvario non finiva. Per sua scelta preferiva tenere attaccata ad un filo la sua vita, per preservare un legame, che quella stessa mattina si era rivelato essere tutt’altro che forte. Forte doveva essere lui per sopportare tutto.
Era riuscito a raggiungere la porta del vecchio teatro. Entrò, corse per le scale, per il corridoio e poi aprì la porta che dava sulla platea. I suoi occhi ebbero solo il tempo di mettere a fuoco il numero dei membri della sua band e la sua bocca ebbe solo il tempo di pronunciare : «Meno male che ci siete tutti!», che la stanza iniziò a vorticare. E poi fu buio.
Che soffitto strano. Sono travi di legno quelle. Come pulsa la testa. E il battito com’è accelerato. Cos’è questo profumo?Sa di acqua di colonia. E’ Jeremy. Sentiva le sue dita affusolate stringergli la mano. Aprì le palpebre. Vide il suo viso: era preoccupato. Quante volte l’aveva vista quell’espressione?Non era la stessa che spesso aveva suo padre?Non era anche quella di Janet, del Dottore, di Sakura, degli altri membri della band, di tutti quelli che gli volevano bene? Che lo amavano. Faceva di tutto per non farli preoccupare. Si lacerava l’anima, trattenendo qualsiasi sentimento di tristezza, di sconforto, qualsiasi richiesta di attenzione, di cura, qualsiasi pensiero contorto che ambiva ad un chiarimento o bisogno che vuole esser soddisfatto. Tutti i suoi sforzi il suo corpo cominciava a non reggerli più.
«Che è successo?» chiese, provando ad alzarsi, ma sentiva il cranio spaccarsi metà e metà e riappoggiò la testa sui cuscini polverosi del divanetto dietro le quinte.
«Sei svenuto» gli rispose Jeremy. Gli stava accarezzando i capelli. Che piacevole sensazione sentire le sue dita attorcigliarcisi dentro.
«Non dobbiamo perdere tempo…dobbiamo andare…»
«Andare dove?!» chiese Jake. «E’ da un’ora che ripeti nella veglia che dobbiamo andare, che non c’è tempo…che significa?»
«Jake smettila, non è il momento di bombardarlo di domande» asserì Julian, in ansia per le condizioni dell’amico.
«C’è un mondo. Esiste un mondo in un universo parallel…»
«Oddio, questo delira!» esclamò Joerge al limite della pazienza. Era stanco di dover tollerare questi attacchi di schizofrenia improvvisi.
«Non sto vaneggiando! Ascoltatemi e…credetemi fin quanto vi è possibile. WoO esiste. E vi sembrerà strano ma WoO vi conosce, anche se a voi risulta non averlo mai incontrato. WoO ha bisogno di voi. Vi prego, credetemi. Non è una sciocchezza…»
«Vieni qua.» Jeremy lo prese in braccio: leggero più di una donna. «Guidaci.»
«Jemy!!!!» gridarono il suo nome sconcertati Jake e Jeorge.
«Voglio provare anch’io.»
«Jody!!! Ok che non avevo dubbi tu avessi accettato» commentò il fidanzato, dichiarandola senza speranze.
«Sono d’accordo pur’io. Proviamo.»
«Julian…e va bene…proviamo» acconsentì depresso Jake. Jeorge, messo ormai in minoranza, fu costretto ad accettare.
«Per le prove del concerto come facciamo?» domandò speranzoso di veder riaffiorare un po’ di buon senso.
«Ci penseremo poi» spense Jeremy lì la conversazione e si avviò all’uscita. Soffiando poi fra i capelli di Matt: «Principessa, verso quale luogo vuole che diriga le mie gambe?» scherzò sorridendo.
«Verso il paradiso, mio principe» rispose, nascondendo la faccia nel petto di lui. Il suo profumo gli inondò il naso. Gli pungeva le vibrisse, accarezzandole. Una sensazione di protezione lo avvolse.