9. Storie
Luoghi misteriosi e inesplorati, le lagune abitate dai Colori erano la leggenda preferita dai piccoli Others. Spesso, nelle sere di luna piena, di fronte ai falò, come fossero storie di paura, si facevano narrare i segreti di questi territori. Come potrebbe sembrar ovvio, tutte le notizie che si avevano, erano frutto dell’invenzione comune. Nessuno era mai riuscito a penetrarvi, perché nessuno conosceva l’esatto luogo di ubicazione delle case dei Colori. Quest’ultimi, dal canto loro, non osavano minimamente rivelare dov’è che abitavano, poiché erano soliti essere schivi nei confronti del resto di WoO. E questo perché le loro vite erano state troppo intricate e complicate per poter essere comprese dalla moltitudine di esseri che costellavano quel loro universo e che sapevano ragionare soltanto in termini personali, senza riuscire perciò a conciliare dinamiche più ampie nei loro pensieri.
La laguna più gettonata nei racconti era sicuramente la Laguna Blu, dove si diceva risiedesse Mea, il presunto capo dei Colori. In verità, ognuno di essi agiva come unità a sé stante, preferivano evitare contatti anche fra di loro; quindi non esisteva un vero e proprio leader. Nonostante ciò, una miriade di fantasiosi eventi s’era venuta a creare intorno alla figura di questo fantomatico capo. Si raccontava avesse un castello stracolmo di ricchezze, un’orda di sudditi che lo servissero, un esercito di draghi alati che lo accompagnassero in ogni sua avventura. E lui di avventure incredibili ne viveva quotidianamente: sconfiggeva i reami malvagi della regione di Utide o attraversava il Muro di Lacrime per raggiungere la terra dei morti, a Litico; non si sottometteva per nessuna ragione ai Virtuali e li combatteva in qualsiasi luogo Omega si posasse e respirando sott’acqua, riusciva a stringere alleanze segrete con il mondo subacqueo di Astal; ed altro, altro, altro ancora. Si diceva sapesse anche volare. Si diceva avesse 300 mogli. Si diceva avesse quattro paia d’occhi. Ed altro, altro, altro ancora.
Mea pensava nel suo piccolo che la fantasia fosse un’arma davvero potente: con pochi tocchi creativi, si riusciva a dare un’idea completamente differente della medesima cosa che si osservava. Si riusciva anche a dare risvolti nuovi a situazioni stagnanti o colore ad un panorama grigio. Spesso si viene derisi dalla gente, che razionalmente cerca di mantenersi con i piedi più saldi per terra, se si dà vita ad arzigogolate circostanze che non hanno capo né coda. Spesso si viene emarginati dalle persone, che, cercando di preservare la loro integrità mentale, si ostinano ad oscurare un cosmo di illusioni dai colori dell’arcobaleno, se si desidera trovare sempre qualcosa dietro, di puramente fiabesco, alle cose della vita. Prendiamo come esempio in esame il caso del “principe azzurro”. Fin da quando si è piccole, ci si aspetta che un bel giovanotto su di un cavallo bianco ci rapisca e porti in una dimora lontana, dove insieme si potesse consumare questo forte sentimento. Questo principe è perfetto. Non ha difetti. E’ sempre sorridente e non commette mai errori. Sa agire in sintonia con il nostro modo d’essere. E’ coraggioso. E’ bello. E’ atletico. E’ intelligente. Non egoista. Non permaloso. Non irascibile. Mai la pigrizia lo avvinghia. Porge la guancia anche al nemico. Troppo perfetto forse per esistere sul serio, ma nella mente di noi piccole bambine, cresciute a pane e Cenerentola, è logico esista. Col tempo il cavallo è diventato una moto, trattata come fosse la sua reale fidanzata: lucidata di tutto punto, diviene il vero oggetto di vanto del principe. La bella dimora è invece uno squallido appartamento monolocale nel centro della città, dove il rombo delle auto e i campanelli delle biciclette, con le voci dei passanti, rendono l’aria intorno troppo poco intrisa di privacy. La lontananza in cui ci si voleva ritagliare uno spazio per vivere il proprio amore, viene conseguentemente abolita e bisogna perciò imparare a saper condividere il proprio principe con gli amici suoi, le amiche nostre, la famiglia di lui, la mia famiglia, il cane, la vicina che chiede lo zucchero, i colleghi di lavoro, il barista all’angolo dove tutte le mattine lui compra il suo cornetto. Il principe, a lungo andare, inizia ad assumere caratteristiche tipiche dell’ego umana e tutti quegli atteggiamenti a tratti divini scompaiono per dare spazio all’egoismo e all’egocentrismo. Quell’azzurrità del principe svanisce. Le fantasie che tanto ci divertivano da bambine e alimentavano quei sogni di gioventù, sono state ingabbiate nella dura realtà del mondo. Nella impressionante e severa natura dell’uomo. Ed è obbligatorio quasi che accada. Che succeda che ci si dimentichi di quando si correva dalla mamma urlanti, dicendo: “Mamma! Mamma! Voglio sposare anch’io il principe azzurro!”. Come se ce ne fossero al mondo così tanti da soddisfare i desideri di tutte le piccine viventi. La mamma sorrideva sempre e consigliava di aspettare. Aspettare cosa?Che a scuola, un bimbo più disincantato di me, mi dica che il principe azzurro non esiste?Che la maestra insegni che è solo una fiaba?Aspettare di scoprire per caso una tua compagna che si bacia uno, due, tre, quattro e via dicendo, ragazzi? Di venire additata come “colei che ha la testa fra le nuvole”?La sognatrice?L’illusa?L’aliena?E così, crescendo, si scopre che per la fantasia non c’è più poi così spazio. Potere preservarle un posticino nel nostro modo di ragionare su noi stessi e di rapportarsi a ciò che è fuori di noi, diventa un’impresa. Ma se si riesce ad esser capaci di portarla a compimento, la vita non si tingerà di colori noiosi e poco esaltanti, ma probabilmente assumerà quel poco di brio, che solo l’immaginazione altra riesce a darti.
Tutte quelle invenzioni che gli vorticavano intorno, a Mea non dispiacevano in fin dei conti, perché tagliandosi sempre fuori dal mondo, con quelle storie poteva rientrare un po’ nella vita degli altri. Era sempre vissuto solo. Non era a conoscenza né dell’attimo esatto in cui fosse nato, né di chi lo avesse generato. Non sapeva assolutamente chi fossero i suoi genitori. E quindi, chi fosse lui. Sapeva solo di essere un Colore. Punto. Forse però non era corretto dire che vivesse in solitudine, perché nella sua grotta, che non era un castello né un altro tipo di costruzione megagalattica, conviveva con una sottospecie di suddito dal carattere di un drago. Pura era una degli ultimi superstiti della stirpe dei Lupi. Condivideva l’alloggio con Mea, in quella laguna dalle acque blu, dal cielo blu, dalla sabbia blu, dal sole blu, dalle montagne blu. Il loro rapporto lo si poteva definire amicizia, ma, inizialmente, per domare quella leonessa sfrenata, Mea aveva dovuto impiegare tutta la sua persuasione per convincerla che fra loro c’era completa parità. Aveva dovuto pure erodere, nel corso della loro convivenza, quella montagna di diffidenza che il lupo aveva accumulato, date le esperienze vissute con soggetti estranei alla sua stretta cerchia familiare, composta da altri tre soli elementi oltre lei. Mentre Mea aveva sembianze umane, Pura era un vero e proprio felino: con artigli affilati, una criniera raccolta in treccine e due corna inarcate che le spuntavano fra i capelli, il suo muso da lupo stonava in tutto quel contorno di specie differenti. Nonostante ciò, nell’epoca d’oro del Regno di Lion, era considerata la più bella lupa, dal fascino selvaggio, che avesse mai cavalcato le lande gelate della loro terra. Anche Mea se ne sentiva attratto, ma aveva sempre frenato il suo cuore, perché non si stimava degno di avvolgere tutto quel vissuto in un sentimento, forse troppo soffocante, come l’amore.
Ultimamente, a tener loro compagnia, era venuto uno dei due fratelli di Pura. Kid, dalla folta chioma argentata e dal corpo completamente blu, con una pietra bianca incastonata in fronte e tre code sottili che gli partivano da dietro, col suo passo felpato e la sua presenza regale, aveva invaso il loro microcosmo. Stava aspettando. Chissà poi chi stava aspettando. Nel suo cervellino, aveva considerato bene che, come luogo d’attesa, soltanto la Laguna Blu poteva offrirgli una certa tranquillità. Così, si stendeva fin dal mattino sotto i raggi blu a fantasticare sul momento in cui avrebbe rincontrato quella persona. L’ultimo ricordo che ne aveva era un odore pungente e nauseante di ruggine. Di sangue. Il suo corpo che si accasciava al suolo. E poi nulla. Voleva rivedere il suo sorriso. Tutto qui.
«Si può sapere che gusto ci trovi a trascorrere le tue giornate così?!» A Pura dava enormemente fastidio il fatto che il fratello sprecasse tempo prezioso per la loro vendetta nello gingillarsi al sole. Stava stendendo il bucato. Mea era solito lavare i panni nelle acque blu della laguna e lasciarli lì, a prendere aria.
«Per piacere, Pura, non mi annoiare.»
«Nemmeno stesse aspettando chissà chi!» disse fra sé e sé, la bella e raggiante lupa. «Sappi che non mi arrendo, eh?! Riuscirò a trascinarti via da questa pigrizia prima o poi!» urlò rivolta a Kid. Ma il suo biasimo fu come se gli rimbalzasse addosso.
Nel frattempo Mea era rincasato da una delle sue ronde, per assicurarsi che nessun curioso si avvicinasse alla laguna.
«Hai l’aria di uno che ha appena visto la morte in faccia» lo stuzzicò quella sfinge giacente sulla sabbia blu, non appena notò l’ombra sul volto del suo ospite.
«In realtà poco c’è mancato che non fosse così.»
«Eh?!» La meraviglia destò Kid. «Cos’è successo?! Su racconta!» Era voglioso di novità.
«Te ne ho mai parlato del bosco alle spalle della Montagna Blu?»
«Be’…sì.»
«Cosa ti ho precisamente detto?»
«Che Pura ed io dobbiamo evitare di andarci» rispose. Cercando di ricordare le parole esatte di Mea, aggiunse poi: «”Se non desiderate mandare all’aria tutta la vostra segreta vendetta, imponetevi il divieto di andare lì.” Sì…più o meno era così…»
«Bene. Ora più che mai, non dovrete andarci. Anzi, vi vieto io stesso di addentrarvici. Vi fermerò in ogni modo, anche a costo di farmi sbranare da voi, se fosse necessario.»
«Che significa?» si introdusse Pura nel discorso.
«Significa quello che ho detto.»
«Non pretenderai mica che mia sorella ed io accettiamo questa proibizione senza alcuna sensata spiegazione, spero?» Kid era fermo nel ricevere qualche informazione in più. Di fronte a tanta decisione, Mea non poté che cedere: «Ok. Hai ragione. Allora vi spiegherò tutto. Ma prima fatemi riposare un po’. Sono stanco. E’ stata più dura che mai, questa volta, scampare a tutte le telecamere.»
* * * * *
Non appena videro spuntare da lontano la chioma bionda del loro beniamino, i bambini gli si diressero tutti incontro, correndo. Mya, che raggiunse per prima il traguardo, ebbe l’onore di salirgli in braccio e godere da più vicino di quella sensazione di tranquillità, che il suo cuoricino agognava ormai da un po’. Gli altri si dovettero accontentare di nascondersi dietro le sue gambe o di stringere l’orlo della sua maglietta. L’importante era toccarlo. Come nel voler instaurare una comunicazione tra la sua persona e le loro; come se dando alle mani il piacere del tatto riuscissero a collegare attraverso un filo invisibile i loro sentimenti ai suoi, per trasmettergli così ogni emozione, forte nel petto e contorta da esplicare a voce; come se volessero attaccare la spina nella corrente e ricaricarsi di elettricità; così insistevano con le dita nel brandire una qualsiasi parte di lui fosse a portata di tocco.
«Che c’è?» chiese Matt, preoccupato, ma al contempo sollevato nel vederli stare tutti bene. «Vi hanno fatto paura? Sono stati cattivi?» chiese scherzando, con voce suadente.
«Mya ha avuto paura…» disse la fanciulla fra le sue braccia e, portandogli le sue di braccia al collo, gli scoccò un bacio sulle labbra.
“L’ha baciato in bocca!” pensarono tutti, meravigliandosi, ma non osando pronunciarsi. Erano d’altronde estranei a quel gioco. Chiunque avesse avuto con Matt un rapporto intimo, che potesse essere dovuto alla parentela o all’amicizia, avrebbe compreso quel bacio. Matt, infatti, aveva l’abitudine, ereditata dai genitori, di baciare sulle labbra le persone a cui voleva bene. Gli sembrava di esprimere così un sentimento di ringraziamento o d’affetto, caricato di un qualcosa di più profondo. Come se il suo cuore sapesse provare solo amore. E nulla più.
Jeremy colse appieno quello stupore generico e, volendo continuare su quella scia scherzosa, si fece dietro Matt e presolo per il mento, gli girò il volto e lo baciò anche lui in bocca.
«Jeeeeeemy!!!» lo sgridò Matt, scostandolo. Notò subito che una sottospecie di sgomento, misto a dissenso, si era dipinto in faccia ai presenti. Puntò i suoi occhi infastiditi sull’amico, inarcò poi le sopracciglia e sorrise.
«Ero geloso, eh Mya?!» chiese aiuto Jeremy. E così prese a fare nasino e nasino con lei, che arrossì dolcemente e si portò le manine davanti alla bocca, tutta imbarazzata.
Matt si sentì strattonare da dietro.
«Sakura ha litigato con quello lì» disse Aki, indicando Jonas.
«Aki, non si indicano le persone» lo rimproverò morbidamente Matt.
«Scusa.»
«Dopo mi spiegate meglio ok?Su, dai adesso. Va tutto bene» li rassicurò, dando ad ognuno una carezza fra i capelli. «Ci sono qua io, ora.» Rivolgendosi al resto, disse: «Arriviamo a noi. Penso abbiate già avuto il piacere di scambiare qualche chiacchiera con Sakura» constatò e subito la vide accostarglisi di fianco, appoggiare la sua testa sulla sua spalla sinistra, tutta rossa in viso.
«Che hai?» le domandò, un po’ preoccupato e un po’ stupito nel riscontrare quel colorito sul suo volto. Solitamente era lui che riservava quel rossore. Non ottenne risposta che chiarisse.
«Bah» sospirò. «Ok. Questo è il gruppo con cui suono» e indicandoli, li presentò: «Qui, attaccato a me come una sanguisuga, c’è Jeremy Aoyama, il batterista.» Jeremy lo ignorò e continuò a giocherellare con i suoi capelli, mentre si appoggiava sull’altra spalla libera con il braccio. «Loro due mano nella mano sono Jeorge Haomori, il bassista, e Jody Anakomachi, la ballerina…»
«Ciao!!!» salutò calorosamente lei, mentre il suo ragazzo li snobbò di brutto.
«…mentre gli altri due là, Julian Allevi, il nostro manager e Jake Otohori, il chitarrista.»
«Piacere di conoscervi» rispose educatamente Julian. Jake si inchinò soltanto, più per scherno, che altro.
«Questo terzetto qui, invece, è costituito da tre miei amici di infanzia: Gen Stevenson, Mizo Sawate e Chiyuki Noto. Credo che solo Takeshi sappia di voi.»
«Ma sicuro!» confermò il fratello. «Vi ricordo perfettamente, nonostante non vi veda da quando ero un moccioso così» e fece segno verso Mattias, che prontamente rispose: «Non shono un mocciosho. Diciglielo, Matt, diciglielo!»
«DIGLIELO!!!» lo corressero in coro Bryan e Hime.
Matt scoppiò in una fragorosa risata e, asciugandosi le lacrime dagli occhi, calmò il più giovane presente lì, sollevandolo fra le sue braccia e poggiando la sua fronte contro quella di Mattias.
«Confermo io per te: non sei un moccioso. E nemmeno un piagnucolone.»
«No…n…» tirò su col naso. «No…» e nascose la sua testa nella spalla di Matt, cercando di celare le lacrime che scorrevano giù copiose.
«Mattias è un ometto» lo consolò Matt, con molta calma, come se sapesse perfettamente come fare per tranquillizzarlo. Come se lo facesse da sempre.
«Oddio, che ho combinato! Non volevo intendere che lo era» commentò depresso Takeshi. «Non era mia intenzione offenderlo.»
«Mattias lo sa, vero?» gli domandò Matt, mentre gli carezzava il capo. «Mattias sa perfettamente che Takeshi non voleva fare il cattivo. Sa bene che nessuno pensa che lui sia un moccioso. Vero?»
Mattias alzò il suo visino e spalancò la bocca in un grande sorriso. Takeshi si rasserenò nel vederlo.
«Shì!» annuì il piccolo contento. Contento di aver assaporato un po’ di quell’affetto anche oggi. Era diventato quasi un obiettivo giornaliero riuscire a cogliere un pezzo di cuore di Matt. Un pezzo di cuore che fosse fatto di parole, sorrisi, carezze, sguardi, consigli, o altro. Bastava anche solo incrociare i suoi occhi per un secondo o le sue labbra gioiose, per sentirsi sprizzare improvvisamente di voglia di vita.
«Ahahahahah…sono cambiati i soggetti di cui prendersi cura, ma tu resti sempre lo stesso, Matt!» constatò felicemente Gen.
«Aah, il tuo senso paterno…» lo canzonò Chiyuki, sospirando.
«Ma va’!» contraccambiò ai complimenti Matt.
«Comunque è vero Takeshi: non ci vediamo da quando avevi 3 anni.» Mizo riprese il discorso precedente, ormai caduto. «Però Matt, ti sbagliavi su una cosa: c’è qualcun altro che conosciamo.»
«Davvero?! Impossibile!» Matt entrò in agitazione. Gen, Chiyuki e Mizo si scambiarono sguardi perplessi. Poi chissà. Quell’ansia fece capire loro tutto.
«Sì, Matt, lui» disse Gen puntando il dito contro Daichi. Quest’ultimo si sconvolse non poco. «Ci è capitato di fare qualche partita di calcio insieme alle elementari. Daichi, giusto?Eri nella sezione A, mentre noi nella B e, dato l’astio fra i nostri maestri, ci capitava di giocare contro. Non ricordi Matt?!»
«Cavolo che memoria! Giuro che non ricordo affatto.»
«Daichi, eri il rivale preferito di Matt, impossibile dimenticarti!» esclamò Chiyuki.
«Aaaaaaaaaaah!» urlò quest’ultimo, in preda al panico. «Ecco! Proprio quello che temevo! Non rimembrate momenti non poco imbarazzanti della mia passata gioventù, vi prego» li implorò Matt, fingendo disperazione.
«Ahahahahahaha…» risero in corso. «Era questo che non volevi far saltar fuori! Ahahahaha…»
«Daichi. I-GNO-RA-LI!» scandì bene Matt, al limite di sopportazione.
«Per niente! Grazie di avermelo ricordato! Lo prenderò in giro in eterno» rise invece lui compiaciuto.
«Uffa» sbuffò l’altro, scontento del fatto di aver scoperto al “nemico” il fianco così facilmente.
«Anch’io conosco qualcuno, anche se ha fatto finta tutto questo tempo di non ricordare chi fossi» affermò Jonas, sogghignando un po’.
«Sì. Me.» Gli occhi di Matt si sbarrarono non appena udì la voce di Jeremy confermare quell’affermazione. «Avrei preferito tacere.»
«EH?! Vi conoscete?! E…com’è possibile?!» L’amico era basito. Non riusciva ad immaginare una qualche conversazione fra loro, figuriamoci una conoscenza.
«Siamo stati un anno nella stessa classe, prima che mi trasferissi allo “Zaya”. Alle elementari» gli spiegò Jeremy.
«Così dispettoso e scontroso, non hai retto molto nella mia scuola» provò a prenderlo in giro Jonas.
«Ah. Ah. Ah. Quanto sei spiritoso.»
«Be’, non puoi negare che l’espulsione ti abbia danneggiato non poco. Sei un anno indietro per caso?» lo provocò.
«No, mi dispiace per te, ma sono perfettamente in regola. Ti piacerebbe potermi deridere» disse, rimandandogli indietro la provocazione.
«Sai che mi frega. Avere a che fare con gentaglia come te è l’ultimo dei miei desideri.»
«Ok, ok, ok. Il discorso sta prendendo una brutta piega.» Come sempre, Yuzu cercò di pacificare le parti. «Che ne dite piuttosto di arrivare al punto della questione? Forza Vit: perché siamo qui?» Riuscì con suprema maestria a deviare l’argomento su ciò che realmente doveva interessare tutti. Vit, che nel frattempo si stava divertendo non poco ad assistere a quel particolare incontro, si sentì per un attimo spiazzata nell’essere tirata in ballo così improvvisamente. Seppe però ricomporsi subito, lieta di chiarificare finalmente i loro dubbi.
«Come primo compito, debbo dare il benvenuto a coloro che or ora sono entrati a far parte di questa compagine. Con mio sommo piacere, vi auguro di trascorrere in questa sede attimi felici o perlomeno intensi. Io reputo che un’esperienza vada ricordata con particolare commozione, non solamente quando questa è piacevole, ma quand’anche fosse stata dolorosa o sgradevole, se vigorosa, è da considerarsi ugualmente meritevole di memoria. Non volendo indugiare a lungo su mie personali considerazioni, passo celermente ad esplicarvi l’argomento della vostra chiamata.
Alcuni di voi non sanno cosa WoO sia. Per poter permettervi di capire l’essenza di questo nostro universo, starei forse anni a raccontare. Desidero però essere semplice e diretta, per non perdermi nei meandri di un discorso di tale difficile portata,e al contempo di essere chiara. Il nostro mondo non è il progetto di un Dio misterioso, che si nasconde ai sensi umani. Non è nemmeno il frutto di una natura implacabile, che origina dal nulla la vita. E neanche è il risultato di un’esplosione antica di corpi celesti o il prodotto di uno scontro di materia. In codesto luogo, non esiste il tempo. Noi non invecchiamo mai. Nasciamo piccoli, cresciamo fino ad un certo punto. E da lì, finché la nostra vita non ci viene strappata via da mani altre, continuiamo imperterriti a vivere. Non esiste lo spazio. O il concetto di dimensione. A dimostrazione di ciò, questo terreno su cui posate i piedi, che di nome fa Omega, viaggia per tutta WoO, senza mai mostrarsi nei cieli. Esistono però i suoni. E con i suoni, i colori. Con i suoni e i colori, gli odori. E con i suoni, i colori e gli odori, esistono i gusti. Se vi toccassi, anch’io sentirei un leggero fruscio sul mio palmo. Avrete dunque compreso che anche noi Others sentiamo. E proviamo pure. Proviamo sentimenti. Emozioni. Sensazioni. Impressioni. Possediamo quindi un cuore. In egual misura lo possediate voi.
Anche WoO ha un cuore. Che pulsa. Che batte. Che sente. Che prova. Che tuttavia sta lentamente smettendo di vivere. La vostra missione sarà proprio questa: ridonare la vita a questo cuore.
Nell’esatto momento in cui ha cominciato ad accusare la stanchezza, WoO, come una bussola impazzita, ha lasciato che penetrassero nel suo popolo concetti forse più familiari a voi umani: egoismo, astio, invidia, potere, prevaricazione, disperazione, megalomania. E con essi: guerre, sfide, battaglie, litigi, combattimenti, spade che si incrociano, parole taglienti come le lame, spinte verso la morte. L’amicizia è morta. Una volta che essa è scomparsa da questo mondo, nulla ha più un senso.
Gli Others si nutrono di amicizia.
Immaginate la Terra senza cibo. Se voi smetteste di mangiare, il vostro corpo si indebolirebbe, fino a perire. La medesima cosa sta accadendo a noi. La pace di WoO è stata sconvolta. Gli Others hanno imparato qual è l’idea di Io. Non sono più capaci di condividere. C’è sospetto. Zizzania. Non sanno più come si fa a convivere.
Quando questo processo ha avuto il via?
Probabilmente molto tempo addietro.
Quando ci siamo accorti che qualcosa era cambiato?
Appena siamo entrati in contatto con voi.
Dove finiremo se la missione non avrà buon esito?
Presumibilmente moriremo tutti.
Cosa possiamo fare per arrestare questa disperata discesa all’inferno?
Come si potrà ripristinare la pace in questo mondo?
Cosa centrate voi qui?
Coinvolgervi è stata una mia scelta. Aspiro ad unire a questa missione la ricerca di mia sorella, Any. E’ una certezza di noi Virtuali la presenza di lei nel vostro mondo, perché in questo nostro, non percepiamo più la sua aura. I Virtuali comunicano fra loro telepaticamente, attraverso l’abilità di avvertire la presenza dei propri simili. La sua non ci è possibile coglierla. Ormai disperiamo nello scoprire che è qui.
In verità, Any è un elemento chiave della missione, per un motivo molto semplice: lo era all’epoca della sparizione, lo è ancora adesso, custode di uno dei Sette Grandi Diademi del Regno dei Lupi, che racchiudono la storia di WoO.
Il vostro compito è per l’appunto ritrovare i Sette Grandi Custodi. Tuttavia è mia opinione che alcuni di essi si faranno vivi da soli, ragion per cui, oltre ad Any, non vi chiederò di spostarvi da Omega, rischiando la vostra incolumità. Resteremo impiantati qui e cercheremo di frugare nelle vostre vite, alla ricerca di uno dei custodi fra voi. Il prediletto. Elemento essenziale per la nostra missione.
Domande?»