| Il continuo del 2° capitolo...
Il tragitto studi televisivi – casa era breve. Tutto intorno al perimetro del grande parcheggio annesso all’edificio, vi era un complesso di quattro palazzi. Matt abitava nel condominio ad est. Spesso si divertiva a raggiungere il suo appartamento attraverso il parcheggio; gli piaceva giocare a “Indovina la scuderia!”: di ogni auto doveva individuare la marca, prima di riuscire a leggerla sul retro! Un gioco assurdo, ma per passare il tempo questo ed altro. Quella sera per di più non ne aveva sbagliata una. Appagato dalla sua piccola rivincita sulla volta precedente, decise di concedersi un’altra pazzia quella sera: voleva raggiungere la finestra del suo domicilio, passando per la scala antincendio. Matt adorava questo genere di follie. Davano il giusto brivido alla monotonia della sua vita. Diciamoci la verità, non che la sua vita fosse monotona, eh? Era un cantante affermato, aveva successo con le donne, frequentava i luoghi più in del momento, andava persino bene a scuola: di certo non poteva lamentarsi. Eppure, nonostante tutto, per lui la sua vita era avulsa dalle spericolatezze tipiche dei giovani. Era arrivato. Sul terrazzino del nono piano si affacciava la finestra difettosa. Gli sarebbe bastato solo forzarla un po’ e casa Kudo sarebbe stata alla sua mercè. Ma non contento della sua duplice vittoria, decise che per perdere un altro po’ di tempo si sarebbe fumato una bella sigaretta. Mentre il fumo aleggiava intorno a lui, dissipandosi in nuvolette dirette veloci verso il cielo, pensava all’indomani, alla terapia che avrebbe iniziato. Scrollando il capo, decise di allontanare quel brutto pensiero. Distolta la mente, si ricordò di quando suo padre e lui non avevano parlato per un mese intero. Stava accadendo lo stesso adesso e Matt non ne comprendeva il motivo. Eppure era stato sincero, a parte forse quando gli aveva tenuto nascosto che la sua malattia peggiorava con il passare del tempo. Però dai, c’è bisogno di portare il broncio per due settimane ed oltre? Matt proprio non capiva, non arrivava a comprendere che quella del padre era una punizione per averlo fatto preoccupare più del dovuto, oscurandogli la verità. «Basta!» Il grido della sua mente, stanca di tutti quei rimugini e di due notti insonni, uscì dalla sua bocca spontaneo. Si alzò, buttò la sigaretta a terra, la calpestò per spegnerla, e poi si apprestò ad aprire la finestrella. Fatto! Era entrato. «Ahi!» Nella contemplazione suprema della sua genialità, aveva urtato contro qualcosa di duro e alto: l’armadio! Con la testa dolorante e il naso gonfio, iniziò a tastare il muro, alla ricerca disperata dell’interruttore della luce. Click. Finalmente vedeva. Il mobile contro il quale si era scontrato era il suo atelier, pieno solo di vestiti neri, grigi e a tinte scure. Matt prediligeva i colori freddi, perché si intonavano meglio alla sua carnagione chiarissima. In fondo alla sua cameretta c’era il letto a castello; fin da piccolo aveva dormito in alto, ormai ci si era abituato, e se mai si fosse trovato un giorno costretto a dormire sotto, probabilmente non avrebbe chiuso occhio. D’altronde se l’era fatto comprare apposta. Di fronte al letto vi era la scrivania, con tutto un disordine di libri, fumetti, disegni vari, e oggetti di cancelleria. Accanto al suo PC, sotto a una moltitudine di pentagrammi e testi di canzoni, la spia rossa segnalava un messaggio nella casella vocale. Come aveva fatto a non accorgersene subito? Corse verso il telefono, incrociando le dita che fosse il padre. Ma la voce che uscì dall’apparecchio non era la sua:
“Ciao fratellone…” iniziò timidamente il mittente, “So benissimo di non avere nessun diritto di chiamarti a quest’ora, dopo che il telefono è stato in silenzio per tutto questo tempo. Però non ho potuto fare a meno di avvisarti. Kary e Daichi sono stati contattati da Julay: ci vuole domani tutti da lui. Lo so lo so…Kary ed io ci siamo lasciati litigando l’ultima volta, quindi forse non dovrei fidarmi di lei. Ma come posso credere che menta su una cosa del genere? Uffi…so cosa stai pensando, che sono uno scemo! Caspita, però, è Kary! Sono rimasto con due occhi sgranati così! Comunque ora ti lascio, il tempo a mia disposizione è scaduto. Pensaci Matt. Ah…Buon compleanno! Tuo Takeshi.”
Buon compleanno? Ma perché oggi era il 10 luglio? Oddio sì…era proprio il giorno del suo compleanno. Se n’era completamente dimenticato, forse perché aveva il vizio di non festeggiarlo mai: per lui quella data era solo sinonimo di brutti ricordi. Però che strano, nessuno se n’era ricordato. Jeremy, King, la band, il dottore…papà…nessuno si era ricordato di fargli gli auguri. Contava così poco l’anniversario della sua nascita? La rabbia iniziò a salire rapida, ma come era solito, in quei momenti cercava il più possibile di ricacciarla giù. Non poteva permettersi di vacillare, non lui. La persona su cui tutti contavano. No non poteva lamentarsi, aveva una reputazione da mantenere. Ed ecco che iniziava a pensare di essere ridicolo. Ma quale reputazione e reputazione! Aveva solo paura, paura che la gente pensasse male di lui, paura che la gente lo ricacciasse, non lo stimasse più. Perché il giudizio degli altri contasse così tanto, non lo sapeva. Conosceva se stesso, però, e questa cosa gli dava fastidio. Finalmente la sua mente ritornò al messaggio, alla prima parte del messaggio: si era concentrato per troppo tempo solo sull’ultimo rigo. Dopo tutti questi anni, l’eco dell’altro mondo era tornato a bussare alle loro orecchie, con una nuova richiesta d’aiuto, una nuova missione. Questa volta qual era il motivo? Forse non avrebbe accettato. Ma l’idea di rivedere Kid faceva capolino nella sua mente, cercando di farsi spazio tra tutta quella marea di scuse e giustificazioni, per mascherare la sua assenza. Avrebbe ceduto? No! Troppi scontri c’erano stati, troppe battaglie non combattute insieme; Matt non si sentiva più parte di quel gruppo, non dopo le accuse e le parole offensive che gli erano state rivolte l’ultimo giorno. Però lì c’era Kid, il suo grande amico, uno dei pochi “esseri viventi” che comprendesse la sua situazione e il suo dolore. Anche se la compassione a Matt non piaceva affatto! Si era riscoperto a riflettere sulle motivazioni sbagliate. La prima ragione per la quale avrebbe dovuto accettare, era la salvezza dell’altro mondo. Non si può pretendere di essere compresi, di essere sostenuti, se i primi a rifiutare il soccorso siamo noi. Questo Matt lo sapeva bene e perciò avrebbe dato a Takeshi risposta affermativa. Che dolce il fratello! Si era ricordato del suo compleanno, ma soprattutto aveva avuto il pensiero di metterlo a conoscenza, cosa che nella mente degli altri non era per niente balenata. “Domani lo chiamo. Ora sono troppo stanco per affrontare una conversazione. Scusa fratellino…” pensò fra sé. Il letto era lì, pronto ad accoglierlo nella sua morbidezza, ad avvolgerlo con le sue lenzuola. Matt prese il cuscino, il suo peluche Kotaro, un bambino dal faccione enorme e con un corpo da dimensioni molto minute in confronto al viso, e si avviò verso la scala. Una volta salito, si accoccolò e si lasciò andare fra le cullanti braccia di Morfeo. Erano le tre, quando tutto quello che il giorno prima aveva solo assaggiato, lo costrinse a correre in bagno. Si sbatté la porta alle spalle e corse verso la tazza, come una donna in preda alle nausee. Vomitò tutto. Era stato nervoso per l’intero giorno e questo aveva incoraggiato il suo corpo ad espellere gli alieni fuori dalla casa-base! Prese il rotolo di carta igienica e ne srotolò un po’, si asciugò il muso e…le vide. Le goccioline di sangue erano lì, piccole, rotonde, rosse, pronte a ricordargli che lui non stava bene! Era malato e niente avrebbe cambiato quella cosa. «Certo Matt che sei strano forte! Ora ti metti a parlare anche con le gocce di sangue!» Si avviò verso la cucina, dove prese l’acqua. Aveva il vizio di bere da vicino alla bottiglia, ma tanto da quelle bottiglie beveva solo lui, quindi il problema non sorgeva affatto! E poi mica era contagioso! No la sua malattia era solo sua. Di nessun altro. Solo sua. Ormai il sonno gli era passato. Accese il televisore e mise il canale degli anime, li adorava e di ognuno di loro ne possedeva il manga. Era un fissato di questo genere! La sua collezione era vastissima, ne aveva per tutti i gusti: quelli per maschi, per ragazze, per uomini di mezza età, per casalinghe disperate, per bambini, per vecchietti, per fanatici; aveva quelli d’amore, d’avventura, di sesso, d’azione, polizieschi, di fantasia, porno, western, splatter, sparatorie varie, vampiri e mostri, ecc. ecc. Tutto merito della Carta d’Oro che gli aveva regalato il padre due anni fa: si era dato alla pazza gioia con le spese, tanto il denaro era l’ultimo dei suoi problemi. Ora stavano trasmettendo Lamù. Era sempre stata, fin da bambino, il suo sogno proibito. Troppo bella, precisa in ogni sua linea, con le curve tutte al loro posto e con quel completino tigrato mozzafiato. Una donna capace di far svenire anche gli uomini. Di solito sono le donne che svengono. Ricordò che a lei dava fastidio. Ogni volta che la davano in Tv, lei partiva in quarta riempiendolo di botte. Iniziava sempre a frignare e se la prendeva col mondo. Dopo per calmarla, ce ne voleva di tempo. Il tempo per farle capire che era solo un anime, una donna virtuale, che era lei l’unica che lui desiderava, solo lei l’unica che amava e con cui mai avrebbe fatto l’amore. Spense il televisore e lanciò il telecomando per terra. Questa era la volta buona che l’aveva rotto. Con tutto quello scotch intorno a mantenere fissi i tasti, si capiva subito che era abitudine di Matt gettarlo in aria ogni qual volta la rabbia iniziava a pulsare. Era sempre così. Quando pensava a lei tutto intorno diventava fuoco e fiamme.
La notte trascorse velocemente. Alla fine non era riuscito a chiudere occhio. La prima cosa che fece fu prendere il telefono e digitare il numero di cellulare del fratello. Era troppo rischioso chiamare a casa: avrebbe potuto rispondere la madre. I genitori di Matt erano divorziati, da ben undici anni. I figli però erano ben consapevoli del fatto che entrambi non avevano, nemmeno per un attimo, smesso di amarsi. Questa consapevolezza impediva loro di provare anche solo un minimo di rancore nei confronti della mamma, la quale era colpevole di aver deciso di dire: «Voglio il divorzio!». Matt non aveva mai ricercato nel corso degli anni un riavvicinamento a Judy: era a conoscenza del suo desiderio di volerlo incontrare, ma la promessa fatta al padre, quando aveva 7 anni, premeva sul suo cuore di figlio, cancellando completamente ogni bramosia d’affetto materno dalla sua mente. Il telefono squillava. Era libero. Dall’altro lato rispose una voce assonnata: «Pronto?» chiese Takeshi. «Ciao fratellino, sono…» Non gli diede nemmeno il tempo di pronunciare il nome, che lo chiamò lui entusiasmante: «Matt! Fratellone! Ciao…Non sai quanto sono felice di sentirti. Allora come è stato ieri?» «Ti riferisci al compleanno? Ah…niente di che…il solito.» «Ma come il solito?Era il tuo diciottesimo compleanno!» «Sì lo so, ma sembra te lo sia ricordato solo tu.» «Capisco. Neanche papà?» «Neanche papà. Anche a lui è passato di testa.» «E’ risaputo che ha una memoria pessima, però non doveva dimenticarselo!» «Sì, hai ragione. Ormai comunque non me la prendo più.» «Eh…be’ allora? Credo abbia un motivo questa telefonata. Di solito non ti azzardi così tanto!» Matt ci pensò su e poi rispose: «Vengo!» «Dove?» «Vengo con voi a…hai capito dove, scemo! Non prendermi in giro!» «No ma dai… Non riesco a crederci! Ripetimelo per favore.» «Vengo!» «Non ci credo! Non riesco a crederci!», urlò Takeshi nella cornetta. «Ma dici sul serio?» «Sì fratellino, non sto scherzando». Matt iniziava a spazientirsi. Già si stava ricredendo! «Evviva! Yaooh! Ti adoro fratellone! Bene allora ci vediamo a Subuya tra un’ora, sotto la statua del primo ministro!» «Ok!» «Allora…» A questo punto la voce di Takeshi si affievolì. Il suo respiro lungo e imbarazzato fece comprendere a Matt che quelle parole era difficile pronunciarle. Perciò il maggiore lo precedette: «Ti voglio bene, Takeshi.» «An…anch’io fratellone!» balbettò e Matt immaginò stesse sorridendo. Con uno ciao carico di calore, Matt riagganciò. Tra un po’ l’avrebbe riabbracciato. Avrebbe riabbracciato il suo fratellino. Un barlume di speranza fece capolino dietro il malumore. Da quanto tempo aspettava quel sorriso, invisibile agli occhi, ma fin troppo evidente per il suo cuore.
Edited by ilusca - 7/10/2010, 12:46
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